Accessibilità: Immagine rettangolare in orizzontale, sfondo grigio scuro. Al centro, la foto di un Bracco ungherese, dal pelo rosso e corto. Il cane è seduto, e guarda in su col collo piegato verso destra, con occhioni innocenti. In alto a destra, un rettangolino bianco in verticale mostra la data di pubblicazione del racconto su questo sito: 14 Agosto 2019.
– Arturo, amore, scendi dal divano.
Nemmeno ascolto. Ti guardo di sfuggita: giacca, cravatta e quella colonia che puzza di gatto. Torni a casa dopo ore e pretendi che io faccia quello che dici. Non hai ancora capito che qui comando io?
Ma che non fossi particolarmente sveglio me ne accorsi subito, quando mi prendesti al canile. Eravamo tutti lì in fila, ti guardavamo, mentre attraversavi il corridoio e ci osservavi. Gli altri avrebbero fatto di tutto per attrarre la tua attenzione: chi saltava, chi abbaiava, chi guaiva. Se ci fosse stato un cerchio di fuoco, qualcuno ci si sarebbe buttato dentro. Io no. Io non faccio nulla, ma quando mi guardi allargo gli occhi e sfoggio il mio sguardo da tenero batuffolo di pelo. Come a dire: “Prendimi sono tuo”.
Tu ti chini, quasi ti inginocchi per guardarmi il muso:
– Che bel meticcio. Voglio lui.
Come se fossi stato tu a scegliermi. Si sa, i padroni sono tutti uguali, due occhi dolci e due strofinamenti e sono tuoi.
Da quel momento il divano è stato mio.
In questa casa: le sedie, i tavoli e anche le polpette sono marchiate Ikea. L’unica cosa che ha un valore è questo divano, dell’Ottocento, di tua nonna. La vecchia era fastidiosa e puzzava di naftalina… ma, devo ammetterlo, aveva gusto.
Adesso pretendi che scenda. Ma allora sei proprio tonto! Apri il balcone per cambiare aria, poi vai in cucina svuoti il contenuto di una scatoletta nella mia ciotola e me la sventoli sotto al naso. Entusiasta urli:
– Mmmm che buono!
Questi pezzi marrone scuro che spari a casaccio nella mia ciotola, e che tu spacci per la mia cena, sembrano più il risultato di una delle mie passeggiate.
Lo sanno tutti che l’impiattamento è importante. Poi, se è tanto buono, mangiatelo te. Io dopo ore di “La prova del cuoco”, “Giallo Zafferano” e “Masterchef”, pretendo di meglio.
– Dai scendi.
Ma non ci penso proprio. Ho impiegato ore per dare a questo divano la forma delle mie chiappe. Poggi a terra la ciotola e ti metti a sedere attaccato a me. Ti aggrappi al mio sedere e inizi a spingere. Cafone. Ecco perché nessuna ti vuole. Ma io irrigidisco le zampe e punto le unghie. Non mi smuovi nemmeno a cannonate. Continui a spingere.
I cuscini di piuma d’oca si ammaccano come sotto l’effetto di un terremoto e la cunetta, che prima avvolgeva le mie chiappe, ora sembra un cratere.
Come senti l’attrito delle mie unghie sul tessuto a fiori del divano, ti fermi.
Mi giro verso di te e cerco di spingerti fuori con la testa come farebbe un toro, ma come al solito, tu non capisci e mi accarezzi. Che schifo quella mano sudata e unta sul mio bel pelo lucido. Continuo a spingere, ma niente sembri una roccia, non ti sposti di un millimetro e mi è anche venuto mal di testa.
Ti alzi di scatto e con la mano rovisti tra i cuscini del divano. Lo so cosa cerchi: il telecomando. Io lo vedo, è scivolato dal bracciolo accanto a me, sulla mia seduta. Mi sposto leggermente per coprirlo con la coda. Tu continui la ricerca: sul televisore, sul tavolo, sulla credenza. Certo che il telecomando, per te, sia come per me il frisbee al parco, se lo buttassi dalla finestra tu lo seguiresti. Quando penso che ti sei levato dalle palle, spingo senza volerlo un tasto con la punta della coda, e la tv si accende.
Ti giri, ciglia aggrottate e sguardo fisso su di me. Non faresti paura a un teletubbie.
Ti avvicini a piccoli passi, ginocchia leggermente piegate e busto in avanti. Sembri quasi un ladro davanti una cassaforte.
Più ti avvicini più noto il tuo sguardo strano. Sembri affamato. Hai gli occhi rossi e la bava alla bocca come quel dobermann che, ieri al parco, voleva la mia palla. Sì quella gialla, quella che… ho perso.
Ti avvicini piano proprio come lui, mi sembra quasi di sentirti ringhiare come lui, ma questa volta il telecomando non lo perdo.
Puntandomi il dito contro e con voce imperativa:
– Arturo scendi subito giù.
Denti in fuori, ti ringhio. Mi avvento contro quel dito, come fosse un appetitoso wurstel, ma senza scendere dal divano. Mica sono scemo io.
Tu come un lampo ritrai la mano, ma continui ad avvicinarti sempre più. Sento il tuo fiato vicino. No non sto tremando, ho solo freddo.
Continuo a ringhiare e abbaio: “Fermati… fermati…”.
Ma tu avanzi, mi spingi da un lato con la mano e prendi il telecomando. Mi lancio contro di te e ne afferro tra i denti l’altro capo. Stringo le mascelle come fosse un succoso osso di pollo.
– Lascialo. Arturo lascialo…
Mollalo te se vuoi. Brandisci il telecomando avanti e indietro come una spada, sembri uno sbandieratore a un palio e io uno stendardo.
Durante la lotta, io con i denti o tu con i palmi, facciamo zapping involontario. La tv cambia canale mille volte al secondo.
– Dai, molla, Arturo!
No. Gira tutto attorno a me: il divano, la tv, il tavolo. Sembra di stare su una giostra, mi viene quasi da vomitare, ma non mollo.
Forse per colpa delle tue mani sudate, il telecomando ti sfugge e io parto dritto come un proiettile con il trofeo in bocca. Mi schianto zampe all’aria sul pavimento del soggiorno con la mia vittoria ancora tra i denti. Ti lanci di corsa verso il telecomando. Scatto come una molla sulle zampe e comincio a correre.
Schizzo sotto il tavolo, slalom tra le sedie e via diretto come un missile in cucina. Tu mi corri incontro, scomposto, con le braccia in avanti fendi l’aria. Arrivato in cucina, ti aggrappi alla porta: gambe larghe e busto in avanti. Sudi che sembri una fontana e le gocce cadono a pioggia sul pavimento. Piegato in due inizi ad ansimare, mi ricordi la cagnolina che mi sono montato ieri.
Con la voce ancora rotta dal fiatone:
– Dove scappi adesso…
Nemmeno fai in tempo a finire che io ti passo tra le gambe mentre tu afferri l’aria.
Mi guardi con quella faccia stupita. Cosa c’è? Vieni. Se vuoi lo rifaccio. Un urlo disperato, di nuovo lo sguardo di prima. Ti lanci su di me. Mi prendi per la coda.
Ti sfugge una risata malefica. Cerco di scappare ma mi sembra di correre sul tapis roulant. Ruoto su me stesso, ringhio, provo a morderti, ma lascio cadere il telecomando. E tu con una zampata lo raccogli e scatti in piedi. Tieni il braccio verso l’alto. Mi guardi, fai smorfie, suoni strani, e saltelli come un bambino di due anni. Quella è la tua età celebrale.
Siamo io e te, uno di fronte all’altro, dal balcone alle tue spalle una leggera brezza fresca. Ricorda la scena di quel film: Per un pugno di croccantini. Io abbaio e tu indietreggi. Ringhio. Cacciando la lingua da fuori, indietreggi ancora verso il balcone.
– È mio… è mio…
Ma sei proprio cretino!
Faccio un salto e tu scatti all’indietro. Adesso hai le chiappe appoggiate alla ringhiera. Con il cielo alle spalle e quel braccio alzato, sembri la versione grassa della statua della libertà.
Ti allunghi sulle punte e agiti il telecomando in segno di sfida. Mi avvento contro di te. Do un morso alla caviglia.
Un urlo di dolore. Sgrani gli occhi, sollevi la gamba e l’altra ti trema. Sporgi il busto all’indietro, allarghi le braccia e le mani. Il telecomando ti scivola. Inizi a ruotare le braccia, ad agitarle come per volare.
– Noooo!
Poi ti vedo sparire giù. Sento: un botto, un allarme, delle urla. Peccato, mi sa che sei riuscito a raggiungere il telecomando.