Accessibilità: Immagine rettangolare in orizzontale con lo sfondo rosso. Distribuite a zig-zag da sinistra a destra ci sono le sagome nere di cinque gambe capovolte. La sagoma è disegnata dal basso, parte da metà coscia in lungo fino al piede. In alto a destra un rettangolino bianco in verticale con la data di pubblicazione del racconto su questo sito: 29 Giugno 2020.
Il 17, i medici del coronavirus sono venuti a casa mia.
Nonostante io cammini con le stampelle, nonostante il fatto che più che camminare zoppichi e che la mia andatura sia per così dire “oscillante”: se mi avessi chiesto qualche giorno prima come va la quarantena ti avrei risposto una favola. Mi alzavo la mattina appena prima di collegarmi per lavorare e una volta finito, mi sedevo in balcone: in una mano un bicchiere di vino che sorseggiavo respirando profondamente e guardavo l’orizzonte. Mi soffermavo a guardare quelle poche macchine passare e le compativo. Per me il traffico della Pontina era un vecchio ricordo. Adesso le 3 ore perse nel traffico erano mie: potevo prendere un aperitivo sul balcone; scrivere o semplicemente guardare un film.
Per la spesa? Alessandra la mia fisioterapista. Veniva tutti i giovedì con guanti, mascherina e con un borsone con il rancio. Certo spesa da fisioterapista, ma pur sempre spesa. Gallette di riso al posto del pane, verdura e fesa di tacchino al posto del salame.
Mi sistemava la spesa in frigo, guardavo con tristezza la fesa di tacchino mentre lei mi ripeteva:
– Non devi ingrassare, ti muovi poco in questo periodo.
Sì, è vero, non vedevo nessuno oltre Alessandra, stavo solo a casa e me lo chiedevo pure: Ma perché non sento la solitudine? Forse perché quando ero adolescente stavo sempre solo. Una specie di quarantena forzata. Una volta finite le ore di lezione entravo in casa e non ne uscivo fino al giorno dopo per andare a scuola. Quando mi sentivo solo telefonavo a qualche compagno e chiedevo compiti che già sapevo.
Insomma, la mia quarantena procedeva alla grande.
Poi a Pasquetta è finito tutto. Comincia con una febbre a 40° e feroci dolori articolari alle gambe. Anche andare in bagno è una tortura. Sento la gamba destra tirare, bruciare. Ogni passo è una fitta, una frustata all’altezza del polpaccio.
Poco male penso, sarà l’influenza. Non potendomi muovere la mia amica Letizia, conosciuta durante un corso di scrittura, compra i medicinali e me li lascia fuori dalla porta. Quando apro, dentro la busta insieme alle medicine una volta trovo un dolcetto, un’altra volta una barretta di cioccolato.
Poi la febbre scende, ma non abbastanza per dire di non averla: 37,5 fisso. Il dolore invece aumenta: la gamba rossa a chiazze come un dalmata, gonfia e dolorante. Non riesco a muoverla. Anche solo strusciando la gamba sul lenzuolo mi sembra di avere aghi conficcati nella carne. Sono praticamente bloccato a letto.
Chiamo il mio medico.
Descrivo uno a uno i miei sintomi. Lo sento mugugnare dall’altro capo del telefono, non posso vederlo, ma il tono di quel mugugno non promette niente di buono. Poi con voce allarmata, mi dice:
– Mi mandi urgentemente delle foto…
Per riuscire a mandare le foto della gamba do fondo a tutte le mie già scarse capacità da contorsionista. Io disteso sulla schiena, gamba piegata, tendo il braccio con il telefonino, provo anche a curvare un po’ la schiena verso la gamba e scattare. Ma no, non viene.
Allora scendo dal letto, mi inginocchio come per pregare, allungo il braccio verso la gamba e con il polso cerco di direzionare il cellulare per riprendere tutte le chiazze rosse.
Le invio al medico. Dopo qualche istante mi richiama con voce ancora più allarmata di prima:
– La gamba è calda?
Mi tocco la gamba con i polpastrelli. Non è calda, bolle proprio. Dico di sì spaventato.
– Deve fare un ecodoppler d’urgenza. Potrebbe essere un trombo.
– Ma non posso muovermi… come faccio?
Per tutta risposta mi arriva un tranquillizzante:
– Che ne so…?
Sì, lo so io, le gambe non le ho mai usate molto e non sono mai state il mio forte, ma il pensiero di perdere la gamba mi terrorizza. Così decido di spammare le mie foto in cerca di aiuto. Chiamo i miei, non lo avessi mai fatto.
– Mamma ho 37.5.
Non mi fa nemmeno finire di parlare:
– Oddio, hai il Coronavirus.
– Ma quale Coronavirus?
– Per televisione hanno fatto vedere una che aveva poca febbre e poi…
Inizio a urlare come un pazzo.
– Ti sembra che io abbia problemi respiratori?
Le mando le foto su WhatsApp.
– Falle vedere a un medico.
Mamma le invia a un angiologo, a suo dire un luminare di Torino. Dopo qualche istante mi richiama con voce terrorizzata.
Ha detto che sono classiche macchie da Coronavirus. Chiama il 112.
So benissimo di non avere il Coronavirus, ma voglio far tacere mia madre. Sembra quasi sperarci, a ogni mio sintomo più banale per lei c’è un’unica soluzione: “Il Coronavirus”. Continuo a ripetere:
– Ma non ho tosse… né problemi a respirare…
– Sì ma ho sentito in tv che…
Del resto per un napoletano non c’è che il subliminale sogno erotico di avere una disgrazia in casa. Qualcosa da raccontare per dimostrare di essere sfortunati. Da raccontare piangendo disperati con le mani nei capelli e stracciandosi le vesti. Siamo un po’ tutti figli di Mario Merola.
Così, mentre sogno che qualcuno stacchi i cavi della tv ai miei, chiamo il 112. Arrivano in tenuta antisommossa. Guanti blu, mascherina, occhiali protettivi e una tuta bianca che li copre completamente: dalla testa ai piedi. Che non ci sia spazio per respirare si capisce dal fatto che gli occhiali sono appannati dalla condensa del respiro.
Mi fanno indossare una mascherina e poi mi misurano la febbre.
– Che sintomi ha?
Mostro la gamba.
– Mi hanno detto che sono macchie da Coronavirus…
I due si guardano e anche se hanno gli occhiali protettivi completamente appannati, riesco chiaramente a distinguere quell’espressione: “Ma che cazzo sta a dì?”
Poi aggiungono:
– Se vuole la portiamo in ospedale…
– Per la gamba?
– No se vuole la teniamo sotto controllo.
Li guardo io adesso con la stessa espressione che si sono scambiati prima.
– Sì, la mettiamo insieme ad altri per un tampone.
Perfetto, così se non ho nulla lì me lo prendo sicuro. Tu cosa avresti fatto? Ecco, sì, anche io sono rimasto a casa.
Li accompagno fuori e rimango solo con la mia gamba dolorante. So solo una cosa: potrei avere un trombo e potrei perdere la gamba. Forse sarebbe meglio avere il Coronavirus, almeno mi curerebbero.
Non so che fare. Per tranquillizzarmi, o forse per sfogarmi, parlo con gli amici conosciuti grazie alla scrittura. Fiammetta mi dà il numero di un centro privato che fa visite a domicilio.
Valentina, che ho conosciuto solo 2 mesi fa a un corso di scrittura erotica, convince il marito medico a venire a visitarmi a casa e a portarmi gli anticoagulanti. La diagnosi: tromboflebite dovuta allo scarso movimento. Faccio l’ecodoppler. Non ho nessun trombo e ora sto meglio e sono tornato a camminare.
Sì, è il caso di dirlo, la scrittura mi ha salvato il culo, anzi la gamba.
Quando ero adolescente stavo sempre solo. Adesso penso ad Alessandra, Letizia, Fiammetta, Valentina e tutti gli amici della scrittura e mi rendo conto che non sarei solo nemmeno volendo.
Racconto realizzato durante il corso di autobiografia tenuto da Rossana Campo presso la libreria I Trapezisti
il 2 Maggio 2020