Ciao Pier Paolo, mi manchi molto. Lo so che sembra impossibile perché non ci siamo mai conosciuti, o almeno mai di persona. Ricordo la prima volta che sentii parlare di te e devo ammettere che non ebbi subito una buona impressione.
Avevo tredici anni, era l’ennesima lezione di italiano, la prof ciarlava di non so cosa. Io in italiano non andavo bene, nei temi viaggiavo sulla media del sei, anche se nell’ultimo periodo inserendo “Dio” all’interno di ogni tema la mia media era miracolosamente arrivata ad otto.
La voce della professoressa era un ronzio fastidioso che mi impediva di pensare ai fatti miei. Per passare il tempo sfogliavo le pagine del libro di testo con la stessa attenzione con cui si sfoglia una rivista dal parrucchiere. Come se il tempo fosse misurato dal numero di argomenti nel libro, volevo capire quante pagine mi separavano dalle vacanze estive. Arrivato quasi in fondo, trovo una poesia tratta da “La meglio gioventù”. Non so il perché, ma come attratto, comincio a leggere. Riga dopo riga, i banchi mi sembrano sparire, così come la voce della professoressa. Dimentico dove mi trovo. Ci siamo solo io e te. Entusiasta di quello che ho appena letto, alzo la mano e, senza aspettare che mi si dia la parola, interrompo la lezione:
– Chi è Pier Paolo Pasolini?
Lei tace qualche secondo e poi, con aria indagatoria, mi chiede:
– Dove hai sentito questo nome?
Io abbasso lo sguardo e quasi per giustificarmi indico la pagina del libro, come a dire: “è una cosa di scuola, sta scritto qua”.
Cosa ci disse di te? Be’ in sostanza che eri un frocione, che avevi tentato di violentare un povero ragazzo indifeso di nome Pino Pelosi e che lui aveva fatto bene ad ammazzarti. Del resto cosa avrebbe dovuto fare?
Ci guardiamo l’un con l’altro, spaventati come se avessimo visto un fantasma. Terrorizzato chiudo il libro, un brivido freddo lungo la schiena e stringo le chiappe. Del resto, come aveva detto la prof, Pino era un ragazzo poco più grande di noi ed il pensiero che qualcuno potesse violentarmi non era tranquillizzante.
Avevo fatto un errore, avevi tratto in inganno anche me come avevi fatto con Pino. Ero deciso a non leggerti più.
Qualche giorno dopo vedo mio padre seduto sul divano a guardare la tv. Sullo schermo riconosco Totò, aveva la faccia dipinta di verde ed era vestito da marionetta. Nella mia testa l’associazione è chiara: Totò fa ridere; le marionette fanno ridere. Certamente doveva trattarsi di un film comico. Mi metto a sedere accanto a papà, pronto a ridere.
Le scene si susseguivano, ma né io, né mio padre ridiamo. Ancora una volta, quella strana magia ipnotica non mi permetteva di staccare lo sguardo dal televisore. Senza smettere di guardare lo schermo, chiedo a mio padre:
– Ma che film è?
– “Che cosa sono le nuvole?” di Pasolini
Ricordo ancora l’ultima scena di quel film. Totò e Ninetto Davoli, due marionette con i fili recisi, vendono buttati in una discarica. Lanciati di peso, rotolano più e più volte tra i rifiuti, finiscono supini tra cumuli d’immondizia: lattine, cartacce e chissà cos’altro. Invece di disperarsi nei loro volti nasce un sorriso che si allarga sempre di più, come una luce in una notte buia. In quella posizione i due riescono finalmente vedere le nuvole.
A quell’età non potevo certo apprezzare il senso simbolico dietro a questa immagine, ma ricordo bene quelle grandi nuvole bianche e il senso di pace che sentivo. Mi sembrava di poter volare, di poterle toccare.
Non poteva essere vero quello che mi avevano detto di te. Un immagine così bella non poteva venire da uno stupratore. Così mi misi a studiare, a vedere tutti i tuoi film, a leggere libri e poesie. Se avessi messo tanta energia nello studio scolastico…
Una poesia in particolare mi colpii, “il PCI ai giovani” che parla degli scontri con le forze dell’ordine, avvenuti a villa Giulia nel 68.
In quell’epoca, nel pieno della contestazione studentesca, scrivi: “io simpatizzo con i poliziotti”.
Tu eri uomo di sinistra, impegnato nel PCI, ma più di tutto eri uomo libero. Pensavi fuori dagli schemi, non seguivi mai la corrente. Dicevi e scrivevi quello che sentivi.
Adesso ci dicono cosa pensare, convincendoci che sono pensieri nostri. Ci fanno bere un bel bibitone al cioccolato, ma che del cioccolato ha solo il colore. Ci tappiamo il naso e, mentre mandiamo tutto giù, ripetiamo: “Non possiamo farci nulla”, “potrebbe andarci peggio”. Come se queste frasi potessero cambiare il sapore o l’odore del bibitone.
E Chi potrebbe parlare?
Be’ stanno bene attenti a non protestare, a non pestare nessun piede. Camminano a tentoni sulle uova, abbassano la testa e tacciono.
Per quello in cui credevi, tu ci sei morto. La tua voce è stata sostituita da un freddo silenzio e i tuoi pensieri dal vuoto. Non è mai più nato uno come te, per questo Pier Paolo mi manchi.
Pubblicato da Scuola Omero il 07 Novembre 2015