Accessibilità: Immagine rettangolare in orizzontale, con sfondo verde prato. Al centro c’è la foto in primo piano di un cucciolo di Bulldog, che mostra un muso nero serrato e occhi un po’ minacciosi. Il pelo del cane è corto e di colore beige chiarissimo, le orecchie sono basse e nere. Porta un collare color arancione. In alto a destra, un rettangolino bianco in verticale mostra la data di pubblicazione del racconto su questo sito: 14 Agosto 2019.
Chiudi la porta dietro di te, siedi per terra, la testa tra le mani e piangi. È la prima volta che ti vedo piangere, hai perso il tuo sorriso, il tuo carattere distintivo. C’incontrammo l’estate scorsa; ti notai subito, passeggiavi lungo il corso, sorridevi, luminosa più di quell’insopportabile sole. Avevi un unico difetto, il damerino a cui stringevi la mano. Ero assetato, lingua penzoloni, non ne potevo più. Forse i miei guaiti o forse il destino, ti girasti.
– Guarda amore, un cucciolo!
Lasciasti la sua mano e corresti da me; avrei voluto apparirti al meglio, non con il pelo arruffato e opaco, ma non ti importava, mi accarezzasti e mi stringesti.
– Ma tesoro che fai? Che schifo! Magari ha le pulci!
Mostrandomi al fesso:
– Ma guarda che bel carlino.
– Bello? Non mi sembra l’aggettivo più adatto, direi nano, sporco… ma bello?
Gli ringhiavo mostrando i denti.
– Portiamolo a casa, lo chiameremo Carletto.
“Casa”, che strana parola, mi hai insegnato tu cos’è “casa”; mi hai fatto felice, ma ora non riesco a farti smettere di piangere. Sono vicino a te, salto, mi metto sulle zampe posteriori. Niente! Piangi e non mi guardi, questo gioco imparai a farlo guardando la tv. Seduta sul divano, io accucciato sulle tue gambe, mi accarezzavi, guardavamo Il Commissario Rex mettersi in equilibrio per prendere un panino, il tuo sguardo s’intenerì. Anche io posso farlo, pensai. Cercai di portare tutto il peso sulle zampe posteriori, uno, due, tre…
Siii, ci sono riuscito, “Guardami, guardami, guardami!” abbaiai, cercando di mantenere quella posizione precaria. Ti voltasti. In quel momento tornò a casa il cretino.
– Bravo, bravo il mio cucciolo. Tesoro guarda… guarda Carletto!
– Non posso devo uscire, ho una cena di lavoro.
– Dai amore vieni un secondo…
Il demente decise di accontentarti, non che mi interessasse particolarmente.
Ricordo come fosse ora. Piano piano entra nella stanza; indossa la solita giacca e una camicia bianca candida, si avvicina. Le zampe mi fanno male, non posso mollare; devo resistere, in fondo, se ci riesce lui a stare su due zampe…
Arrivato al divano piega le ginocchia e mi squadra dalla testa alle zampe, poi con sufficienza:
– Almeno ora una cosa la sappiamo di sicuro, è maschio.
È vicinissimo, e a quella camicia manca certamente un tocco di creatività e di colore. Mirare, puntare, fuoco; parte uno zampillo che va’ a colpire perfettamente il bersaglio.
– Noooo cazzo!
Detto questo esce lasciandoci finalmente soli. Ti guardo, hai la mano a coprire la bocca ma dagli occhi si capisce che stai ridendo. Che bel momento quello.
Ora invece non ridi e non so cosa fare. Ti alzi, io ti seguo. Vai in camera, apri il cassettone e prendi delle foto, ti sdrai sul letto e le sfogli piangendo. Salto sul materasso, lecco il tuo viso e sento il sapore delle lacrime che continuano a scorrere. Mi accuccio vicino a te e ti guardo. Che letto grande!
Quando l’imbecille ritarda, ormai sempre più spesso, ho il permesso di stare qui, posso dormire ai piedi del letto o accoccolarmi vicino a te e leccarti il viso, come adesso. Spesso giochiamo, ridendo, ti diverti e mi preghi:
– Basta… basta…
Quando l’imbecille arriva con un mazzo di fiori, mi prende per la collottola e mi sbatte fuori la stanza chiudendo la porta. Resto fuori. Poco dopo ti sento lamentare, stranamente a lui dici:
– Ancora… ancora…
Forse dovrei anche io farti un regalo, ma cosa regalarti? Foto nuove?!
Seduta sul letto le lacrime cadono come pioggia sulle fotografie, una a una le strappi e butti i pezzi per terra.
Mi avvicino per guardarle, sono tutte foto tue con il mentecatto. Strano… le strappi come poco fa strappavi la sua camicia con quella macchia rossa sul colletto.
Ricordi?
In quel momento lui entra. Ti vede. Urli. Chiedi spiegazioni. Nulla; non dice nulla, non ti guarda e si avvicina all’armadio. Forse per paura che strappi altri suoi vestiti li mette alla rinfusa in un borsone. Ti avvicini urlando e lo prendi per un braccio. Ti spinge sul letto. Mi avvento sulla sua gamba strattonandogli il pantalone; un calcio e mi fa volare via. Chiude la borsa ed esce. Tu lo segui urlando fino alla porta.
Da allora non smetti di piangere, non so più cosa inventarmi e devo anche andare a fare la passeggiata. Sarà che vedo l’immagine del deficiente sparsa per terra, ma non resisto più. Per non sporcare, mi accuccio su un pezzo di fotografia e… la faccio. Ora al posto della sua faccia, c’è un grande, enorme, fumante stronzo. Abbaio soddisfatto e libero. Tu mi guardi e scoppi in una grande e profonda risata; a saperlo prima… devo fare anche la pipì.
Pubblicato dalla Scuola Omero il 9 Settembre 2014