Accessibilità: Immagine rettangolare in orizzontale. Sullo sfondo verde oliva, dal centro s’irradiano i raggi di un sole rosso-fucsia. In primo piano, la sagoma nera di un uomo calvo in atteggiamento meditativo, seduto a gambe incrociate in posizione yoga con la schiena dritta, le braccia ai lati delle ginocchia, i palmi delle mani con i pollici e i medi che si toccano. Da sopra il capo, in verticale, come i sette chakra, sono disegnate 6 olive verdi e rosse-fucsia, la sesta oliva termina all’altezza dell’ombelico. Sotto l’ombelico, come uno slip, è stilizzato un calice da cocktail rosso fucsia. In alto a destra un rettangolino bianco in verticale con la data di pubblicazione del racconto su questo sito: 28 Gennaio 2016.
Ho sempre amato le olive ascolane. Andavo sempre a comprarle da quello sporco kebabbaro color caramello.
Sì quello in fondo alla strada.
Quando entravo, prima di servirmi si puliva il naso con la manica della camicia e poi, con un italiano che a definirlo tale, ci vuole fantasia:
– Cosa volere?
Da tre anni andavo da lui, quasi tutti i sabati, e non aveva ancora capito cosa volevo? Ma oltre che negro era pure deficiente.
Lo stesso avvenne anche quella sera. Ordinai le mie sei olive ascolane, me le porse in un sacchetto marrone, talmente unto che sembrava che da un momento all’altro potesse bucarsi. Ma almeno costavano poco.
Apro il sacchetto, prendo una delle olive tra il pollice e l’indice: la ruoto, la giro come farebbe un sommelier con un calice di vino. Ovale perfetto, sembrava di stringere il mondo tra due dita. Doratura senza pari: una vera pepita d’oro. La porto lentamente alla bocca e poi un sol boccone.
Al primo morso un’esplosione. Fuoco e fiamme, un’eruzione vulcanica nella mia bocca.
Il ripieno di carne come una colata lavica si fa strada nel palato e sulla lingua.
Non riesco. Istintivamente ingoio. L’oliva, che il deficiente aveva dimenticato di snocciolare, mi si ferma in gola.
Sgrano gli occhi. Comincio a tossire a ripetizione, come se dovessi sputare un polmone. Divento paonazzo.
Cerco di parlare, ma non ci riesco, dalla mia bocca escono suoni strozzati. Inizio a gesticolare con le mani chiedendo acqua.
Speriamo che il deficiente capisca. Lui corre al lavandino riempie un bicchiere fino all’orlo e me lo porge. Glielo strappo dalle mani e, tossendo, inizio a bere con la stessa foga di chi è stato nel deserto.
Sento l’acqua scorrermi in gola e ai lati della bocca. Ma l’oliva resta ferma, immobile.
Poggio il bicchiere sul bancone e inizio a darmi dei colpi al petto. Sembro un gorilla. Ma niente.
In quel momento vedo il negro saltare il bancone e venirmi dietro.
È alle mie spalle. Ma che vuoi?
Mi abbraccia all’altezza dello sterno ed inizia a stringermi ripetutamente: una, due, tre volte. La schiena batte contro il suo petto e sento il suo bacino premere contro di me.
Ho capito cosa vuole: approfittarsi di me. Si sa che da quelle parti sono tutti di quel genere lì…
Mi devo liberare. Col poco fiato che ho in corpo, mi divincolo alzando i gomiti. Poi come un ubriaco, barcollando mi reggo al bancone e cerco di trascinarmi il più lontano possibile da quel pervertito.
Con il fiato strozzato ripeto:
– Aiuto… aiuto…
Il negrone mi corre dietro ripetendo:
– Aiutare io… io aiutare…
Sì, ho capito come vuoi aiutarmi tu.
Avanzo come posso, sempre reggendomi al bancone. Barcollo, trascino in avanti prima il busto e poi le gambe.
La vista si fa meno nitida: tutto inizia a oscurarsi, i bordi si confondono, le immagini si sgranano. Mi fermo un istante. Con una mano mi stropiccio gli occhi.
Ma lui sta arrivando. Lo sento, sento il suo fiato all’aglio e la sua voce che ripete:
– Io aiutare… io aiutare…
Prendo il bicchiere lasciato sul bancone e glielo tiro contro. Ma non vedo e non ho forza. Invece di disegnare una parabola perfetta e prenderlo in fronte, il bicchiere mi scivola davanti ai piedi, frantumandosi in mille pezzi.
Le schegge di vetro partono come proiettili. Mi riparo il viso con il braccio. Non vedo quasi più nulla, solo ombre, anzi solo l’ombra dell’uomo nero.
Ma sento. Sento colarmi lungo le braccia il sangue, sento ancora quella voce fastidiosa, anche se ora sembra più lontana, somiglia al ronzio di una zanzara.
– Curo io… tranquillo non preoccupare… curo io…
Sono stanco, ho bisogno di riposare.
Mi siedo a terra fissando il buio. La testa è pesante, devo sdraiarmi qualche minuto. Mi stendo sul freddo pavimento del locale. Un vento gelido mi attraversa. Ho i brividi. Lui mi è ancora vicino, vedo la sua ombra accanto a me. Con le mani mi preme il petto a ritmo costante:
– Uno… due… tre… forza signore… uno… due… tre… non morire signore…
Non muoio tranquillo, chiudo solo gli occhi un attimo.
Intanto sento l’ombra avvicinarsi, mi spalanca la bocca con le mani e appoggiando le sue labbra alle mie inizia a soffiare come fossi un canotto.
Ho sonno, voglio dormire e non ho la forza di oppormi.
Vedi che avevo ragione che era un po’ ricchione… e non sa proprio baciare.
Nel 2016 con questo racconto ho vinto il contest “La Promessa della felicità” e sono andato a Berlino. Il racconto è stato pubblicato da Scuola Omero il 28 Gennaio 2016
L’illustrazione di copertina è a cura di Luigi Annibaldi